Continuando a delineare il profilo storico dell’internazionalizzazione, Carlo Russo giunge alla crisi degli anni ’70 le cui prime avvisaglie si ebbero nel 1972, allorché Egitto e Siria attaccarono Israele e dal conseguente conflitto derivò il primo shock petrolifero. In Italia, si sperimentarono le prime domeniche a piedi. Il nostro Paese si scoprì vulnerabile e significativamente dipendente dalle risorse energetiche e da tutte le materie prime derivate dalla lavorazione del petrolio. Sul finire degli anni ‘70, si cominciarono a registrare le prime crisi nell’andamento della domanda nel mercato interno. Queste difficoltà spinsero le aziende italiane, come già quelle americane, ad iniziare a guardare ai mercati oltreconfine con l’obiettivo di compensare le perdite sul piano della domanda interna, attraverso quella che poteva essere garantita da mercati meno evoluti in termini commerciali. Come sottolinea Carlo Russo, è degno di nota osservare che anche l’economia americana negli anni ‘70 fosse puramente domestica. La crisi, che investì le economie di diversi Paesi in questa fase storica e la conseguente recessione, creò numerosi casi di fallimento negli Stati Uniti. Il mercato dell’auto andò in crisi, trascinando con sé anche il modello di produzione fordista.
In quegli stessi anni, l’economia giapponese, ripartita da zero a seguito della pesante sconfitta mondiale, mostrava invece significativi segnali di ripresa. In Giappone si era avviata una riorganizzazione del tessuto economico produttivo in maniera molto ordinata e disciplinata, basata sull’osservazione, lo studio e la replica puntuale dei cicli di produzione delle aziende americane. Scrive Carlo Russo in proporsito: facendo ricorso ad un sistema di management che saliva dal basso verso l’alto (Bottom Up), una fedeltà all’azienda pari alla venerazione per il loro Imperatore, con un fortissimo senso d’identità che li portava, perfino, a cantare ogni mattina l’inno aziendale, e infine un sistema d’incentivazione e partecipazione da parte di tutti gli operai a scrivere i loro suggerimenti (le lettere venivano imbucate nella cassetta postale del management, chiamato Quality Circles). Tutto ciò fece coincidere il proprio riscatto sociale dopo la pesante sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, con il desiderio di rilancio industriale”. In modo graduale, in silenzio nel corso degli anni, i giapponesi furono in grado di adottare e replicare la tecnologia americana in modo molto efficace e remunerativo per la loro struttura industriale ed economica. Ci fu un enorme salto nella qualità e nei processi, con ingenti riduzioni di costi. I risultati furono così incoraggianti che resero possibile il rinnovamento e la ripartenza di quella industria dell’auto, che negli Stati Uniti non solo era matura, ma ormai pesantemente in crisi, ribaltando il paradigma che vedeva gli Usa esportare auto nel mondo e il Giappone importarle dagli Stati Uniti. Nel giro di pochi decenni, il Giappone divenne la locomotiva della ripresa dei paesi asiatici ed iniziò ad esportare nuovi modelli di auto negli USA a prezzi molto competitivi. Toyota e Nissan divennero marchi famosi ed apprezzati nel mondo. Alla fine degli anni ‘70 e all’inizio degli anni ‘80, toccò agli Stati Uniti, colti di sorpresa dall’industria giapponese, assumere la struttura di gestione, di management giapponese (The Japanese Management, The Quality Circles, ecc.) e di ripresa industriale come modello per copiarlo a loro volta. Osserva Carlo Russo in chiusura del paragrafo che, per un paradosso della storia, tutte le Università e le Business School americane cominciarono ad insegnare agli americani come riprendere il modello giapponese e il modo in cui i giapponesi stessi fossero riusciti a copiare gli americani.
Questa nuova consapevolezza e l’obiettivo di superare la recessione interna e il calo della domanda, spinse le aziende statunitensi ad iniziare un processo di multi nazionalizzazione, intesa come la delocalizzazione della produzione nei paesi asiatici, per cogliere i vantaggi del basso costo della manodopera, dell’assenza di sindacati, e della disponibilità elevata di manodopera femminile. Le prime produzioni all’estero delle aziende americane, infatti, avevano come oggetto i nascenti prodotti dell’elettronica e dei Personal Computers. Questi necessitavano, osserva Carlo Russo, della lavorazione di pezzi sempre più piccoli, per la quale risultavano particolarmente adatte e preziose le dita piccole ed esili delle operaie di Taiwan, Malesia e dei paesi asiatici limitrofi, esclusi Vietnam e Cambogia, distrutti dai conflitti. Mentre il mercato cinese si mostrava ancora bloccato (si aprirà dal 1985 in poi), anche le imprese italiane cominciarono a guardare all’Asia e ai mercati di quell’area come possibili sbocchi commerciali per i loro prodotti.