Nel libro di Carlo Russo Internazionalizzazione vincente si può leggere un efficace e interessante excursus storico, che ricostruisce la figura dell’esperto di internazionalizzazione. Nel volume il manager ricostruisce il contesto storico che ha portato ad una rapida crescita degli scambi economici tra i vari paesi avvenuta negli ultimi 50 anni, che ha reso l’economia mondiale molto più aperta.
Dopo il primo shock petrolifero seguito alla guerra in Medioriente, si registrarono le prime crisi degli andamenti del mercato interno. Gli stessi Usa, fino agli anni ’70, mostravano un’economia a carattere decisamente domestico e proprio la necessità di superare la recessione interna e il calo della domanda, spinse le aziende nella direzione “un processo di multi nazionalizzazione, intesa come la delocalizzazione della produzione nei paesi asiatici, per cogliere il vantaggio del basso costo della manodopera, dell’assenza di sindacati, e dell’levata disponibilità di manodopera femminile”. Non a caso, la prime delocalizzazioni estere delle imprese statunitensi riguardarono i nuovi prodotti dell’elettronica e dei Personal Computers. Questo tipo di produzione, richiedendo la lavorazione di pezzi sempre più piccoli, si poteva avvantaggiare del lavoro delle dita minute delle operaie di Malesia, Taiwan e dei vari paesi vicini, con l’esclusione di Cambogia e Vietnam, a causa delle devastazioni causate in questi paesi dalla guerra. Mentre il mercato cinese continuerà fino all’85 a mantenere una certa linea autarchica, le imprese italiane iniziarono a guardare all’area asiatica e all’Asia come potenziali mercati di sbocco per i loro prodotti. La sfida della crescita estera e la possibilità di diventare una multinazionale fecero nascere nelle PMI e nelle aziende più grandi la necessità di fare ricorso alla figura dell’esperto d’internazionalizzazione.
In un primo momento, osserva Carlo Russo, nel nostro Paese questo compito fu assunto dall’imprenditore stesso, il quale partecipava in prima persona alle delegazioni commerciali, girando il mondo con la sua segretaria, il suo campionario o campionatura da esposizione e fidando solo sul proprio intuito. Scrive Carlo Russo: “Il suo staff era quindi costituito da una factotum tuttofare di fiducia, da un responsabile amministrativo e da uno di produzione. Il Direttore Commerciale Estero, o lo specialista per l’internazionalizzazione, era pertanto lo stesso imprenditore”. Si trattava di imprenditori tenaci, forti, carismatici, estremamente intelligenti, intuitivi, e visionari e in possesso di una conoscenza profonda dei propri concorrenti italiani ed esteri. Nei fatti, queste figure erano dei veri e propri calcolatori elettronici di prezzi, margini e costi, delle banche dati, dei manager, delle “Business School fai da te” viventi e ambulanti che, negli anni, con il proprio bagaglio di esperienza, avevano fatto proprie tutte le materie e le competenze indispensabili alla gestione aziendale e che, in seguito, sarebbero state poi formalizzate e definite come oggetto di insegnamento nelle Management Business School moderne.
Nati nel dopoguerra, questi imprenditori avevano potuto osservare da vicino e seguire direttamente, attraverso una lunga gavetta, tutte le fasi di un processo aziendale, dall’acquisto delle materie prime alla riparazione in prima persone delle macchine quando si guastavano, dalla fatturazione alle risorse umane, dalla manifattura al controllo qualità, dal marketing alla vendita. Seguendo il classico procedimento per prove ed errori, giungevano alla definizione delle migliori strategie di penetrazione dei mercati esteri. Una generazione di imprenditori unici e dalla qualità eccezionali, che hanno saputo resistere alle numerose difficoltà che si sono trovati ad affrontare. L’imprenditore delle Pmi era solito muoversi all’estero solo con l’ausilio di un tassista e di un interprete, dovendo anche fare i conti con la barriera della lingua. Raramente, infatti, conoscevano l’inglese: Carlo Russo, a proposito, ricorda di aver conosciuto un imprenditore bergamasco, che affermava di aver girato il mondo e fatto affari, facendo uso solo del proprio dialetto. In questa fase embrionale dell’internazionalizzazione questioni oggi capitali, come Corporate Governance, competenze e professionalità erano completamente prive di ogni minima attenzione. La struttura societaria era integralmente padronale e non prevedeva la presenza di Consiglio di Amministrazione, di revisori o di un Collegio Sindacale. Anche il supporto istituzionale che l’imprenditore poteva ricevere all’estero era pressoché inesistente, e si poteva confidare solo nella fortuna di incontrare persone illuminate, che si adoperavano su base volontaria e per pura passione personale.