Riprendiamo, qui, dal volume di Carlo Russo, Internazionalizzazione vincente, un interessante profilo storico delle istituzioni italiane all’estero e del supporto da loro offerto nel tempo all’attività di internazionalizzazione delle nostre aziende. Negli anni che videro i primi passi all’estero delle aziende italiane, scrive Russo, apparve subito evidente che, accanto alla figura del dell’esperto, vi era il bisogno di un supporto locale, societario, fiscale, commerciale e naturalmente di assistenza sul piano del marketing internazionale. In questa primo periodo, in assenza di una adeguata cultura e preparazione da parte delle nostre imprese, appariva del tutto naturale appoggiarsi ai Consolati, alle Ambasciate, alle Camere di Commercio, alle sedi dell’ICE (Istituto per il Commercio Estero), alle Associazioni Industriali. In Lombardia alla Compagnia delle Opere, alla Promos e naturalmente alle Banche con i loro uffici di rappresentanza e filiale o affiliate locali.
Le Ambasciate Italiane potevano contare su pochissime risorse, a differenza di quelle di altre Paesi europei, come Francia e Germania, che annoveravano staff composti da numerosi funzionari diplomatici. Le poche risorse spingevano le nostre Ambasciate a svolgere un mero ruolo di ufficio visti e ad attivarsi solo per le aziende di maggiori dimensioni e fama. Accadeva che, nella quasi totalità dei casi, i nostri imprenditori si muovevano all’estero senza neanche comunicare con la propria Ambasciata, considerata come un organo burocratico e valido solo per relazione ad alto livello; questo anche in considerazione del fatto, osserva Carlo Russo nel volume, che il ruolo istituzionale di supportare le aziende era affidato all’Istituto per il Commercio Estero (ICE), i cui rappresentanti all’estero avevano uno status elevato, quasi paragonabile a quello degli ambasciatori, con costi molto elevati, anche se, poi, in rari casi si dimostravano utili per le PMI, limitando loro azione alla pubblicazione delle analisi di paese e di settore. L’esigenza dell’imprenditore era di poter incontrare potenziali partners per distribuzione o produzione o manifattura, clienti e fornitori, ma difficilmente i funzionari dell’ICE entravano nello studio di micro-settori merceologici e nicchie di mercato e ancora con più difficoltà nella conoscenza dei competitors locali. Questo stato di cose provocò, nel corso degli anni, un profondo malcontento nei confronti della capacità di fornire assistenza all’estero da parte dello Stato italiano, con un continuo scarico di responsabilità, doveri e incombenze tra Ambasciate ed ICE e duplicazioni di costi. A questo, si deve aggiungere che in quegli anni gli Ambasciatori non considerassero molto dignitoso per il proprio rango occuparsi delle esigenze delle piccole aziende, preferendo delegare il compito alla figura dell’Addetto Commerciale. Con il passare degli anni emerse in maniera sempre pressante l’esigenza di avere Ambasciatori con un profilo meno “storico” o da scienze politiche e più orientato al business che alle relazioni diplomatiche.
Il canale privilegiato per farsi conoscere era costituito dalla partecipazione alle fiere organizzate dalle Camere di Commercio e, anche in questo caso, non sempre il supporto e l’assistenza erano puntuali ed efficaci. Comer ricorda Carlo Russo, quello delle Camere di Commercio era un modello di business che si limitava a riscuotere una quota per l’associazione per poi svolgere un ruolo simile ad un tour operator e da organizzatore di fiere commerciali, riservandosi l’impegno di combinare almeno alcuni incontri. Di fatto, le Camere di Commercio (incluse Compagnia delle Opere e Promos in Lombardia), non avendo una compartecipazione agli utili, realizzati dalla loro attività d’intermediazione e dovendo contenere drasticamente i costi, si affidavano a risorse molto giovani e precarie, che si limitavano a prendere i nominativi per gli incontri dalle pagine gialle locali e/o da improbabili elenchi.
Secondo l’esperienza diretta riportata da Carlo Russo le delegazioni organizzate da Confindustria e dalle Associazioni Industriali mostravano un profilo organizzativo più appropriato ed efficiente rispetto a quelle della Camera di Commercio, con agende d’incontri mirate e interlocutori locali più validi, membri di Associazioni Industriali del posto e più rappresentative degli industriali locali. L’unico limite, spesso riscontrato peraltro, era dettato dalle dimensioni della PMI, che trovavano troppo onerosa sul piano dei costi la stessa associazione a Confindustria. Oltre a ciò, l’assistenza era circoscritta alla sola ricerca e all’organizzazione di incontri B2B e one-to-one con aziende locali, senza l’offerta di alcun supporto in sede di trattative e negoziazione, o di tipo fiscale, doganale, societario, ecc. Completamente assenti, invece, risultavano, almeno nei riscontri personali del manager toscano, le Associazioni Piccoli Imprenditori (API) locali e la Confapi (Associazione Nazionale delle API, l’equivalente di Confindustria per piccoli imprenditori).